L'unico intruso, rispetto alle voci di Jiro e dei suoi figli ed apprendisti, è rappresentato da un critico di gastronomia, ideale per introdurre lo spettatore ignaro alla magnificenza del ristorante di Jiro, tempio-atelier in cui da settant'anni l'anziano chef pratica il rito della preparazione del sushi. Massaggi di polipi che arrivano a 40 minuti, tagli di tonni selezionati dopo un accuratissimo setaccio al mercato del pesce di Tokyo, tutto per realizzare il sushi più delizioso e ricercato del mondo, un'arte che Jiro non ha mai smesso di imparare, migliorando in continuazione. Al punto tale da permettere al ristorante di entrare nella ristretta cerchia dei "tre stelle" Michelin, nonostante i coperti siano dieci e posizionati davanti a un bancone, la prenotazione debba avvenire almeno un mese prima e il prezzo vada dai 220 euro in su. Ma Jiro e l'arte del sushi è soprattutto l'occasione per ritrovare, nella parabola di Jiro, i valori tradizionali di lavoro e famiglia messi costantemente in discussione dalle nuove generazioni nipponiche. "Amare il proprio lavoro e perfezionare la propria arte significa meritare onore in società". Idee antiche e forse estreme, ma il viaggio nella esemplare coerenza di Jiro lascia esterrefatti quasi come lo stato di morbidezza raggiunto dalle fette di tonno e salmone utilizzate. Una vita di sacrificio e una filosofia di dedizione alla causa, trasferita ai due figli, che hanno seguito destini diversi - l'uno l'autonomia di un ristorante proprio, l'altro l'affiancamento del padre fino al suo ultimo respiro - nella consapevolezza di non poter superare il padre-sensei. Dinamiche familiari ed esemplari, che la perizia di David Gelb riesce a far emergere con l'ausilio della musica classica e di Philip Glass in particolare. Visione sconsigliata a stomaco vuoto.