“Volevo solo girare il primo film di psicoanalisi. Ho voluto rompere con il modo in cui il cinema presenta i sogni. Ho chiesto a Selznick di assicurarsi la collaborazione di Salvador Dalí. L'unica ragione era la mia volontà di ottenere dei sogni visivi con tratti netti e chiari. Volevo Dalí per il segno della sua architettura, le ombre lunghe, le distanze che sembrano infinite, le linee che convergono nella prospettiva, i volti senza forma" (Alfred Hitchcock). E voleva Ingrid Bergman per le ragioni di sempre: mettere in scena lo spettacolo di un'algida bionda persa in un amore che potrebbe esserle fatale. In realtà, la Bergman algida non è mai, gli occhiali e i capelli che sfuggono allo chignon fanno anzi della dottoressa Petersen uno dei personaggi più sexy della sua carriera. Quel palpitante titolo italiano che sostituisce l'enigmatico Spellbound nutrì fanciullesche vocazioni femminili alla psichiatria. Ma tra un passo e l’altro d’una psicanalisi illustrata come una favola, quali squarci formidabili sa aprirsi questa cinepresa: il povero Gregory Peck, che per antico trauma odia il bianco e le righe, s’inoltra nel candore d’un bagno piastrellato, e in un attimo comprendiamo “l’illimitato, criptico terrore che può emanare dagli oggetti” (James Agee); poi, il ritorno del rimosso, in due sole inquadrature silenziate, è il più conciso e agghiacciante che potremo mai ricordare. La resa dei conti, col suo finale fiotto di rosso, è scritta sul filo tra pathos e sudore freddo.